Il maestro d’abaco, la recensione del thriller di Ciccarelli e Di Marco

Il maestro d’abaco, la recensione del thriller di Ciccarelli e Di Marco

17 Aprile 2021 0 Di Giancarlo Loffarelli

Marcello Ciccarelli e Bruno Di Marco hanno scritto, per i tipi della Newton Compton Editori, un romanzo dal titolo La confraternita degli assassini (Roma 2021) che l’editore si premura di definire, riduttivamente, “thriller” storico.


Si comprendono le ragioni dell’editore, al quale, con ogni probabilità, si deve anche il fuorviante titolo. Le ragioni editoriali sono, soprattutto oggi, principalmente economiche e, da questo punto di vista ci auguriamo sinceramente che l’editore abbia avuto ragione e che agli autori giunga anche un meritato successo economico.
Il punto non è questo. Il punto è che non ci troviamo di fronte a un banale thriller storico ma a un romanzo storico di grande spessore in cui il piano delle vicende storiche, quello del dibattito filosofico e quello della storia dell’arte
s’intrecciano in una sintesi che, affidata alla finzione narrativa, riesce a offrirsi al lettore con felice leggerezza.
Nel thriller la vicenda poliziesca è collocata in primo piano e tutto il resto rimane sullo sfondo, quasi a pretesto. In questo caso, invece, i diversi piani si fondono con un’abilità tale da far venir meno la consueta distanza fra primo piano e sfondo.
Ed è questo quanto accade all’interno di quella che fu la rivoluzione dell’epoca in cui la vicenda è ambientata, la prima metà del Quattrocento: la prospettiva. La struttura prospettica, come in questo romanzo viene raccontata con tutte le conseguenze politiche, filosofiche e teologiche, rifiuta la rigida separazione fra umano e divino, così evidente all’interno dell’arte gotica, dove l’umano è relegato sullo sfondo e il divino posto quantitativamente in primo piano. Sembra una constatazione banale, ma il romanzo di Ciccarelli e Di Marco ci mostra con avvincente dinamicità che all’inizio non fu così e ciò che oggi appare ovvio, allora produsse o consolidò fratture, divisioni e ovviamente sangue e morte. Il vento che contribuì a questa rivoluzione giunse da Oriente. Nel romanzo assume le sembianze di un sapiente di nome Isidoro e della figlioletta Nour. Isidoro e Nour. L’ombra lunare (Isidoro vuol dire dono di Iside, la dea egizia della luna) e la luce (questa l’origine del nome Nour). Padre e figlia, uniti e opposti al tempo stesso, depositari di una sapienza che l’Occidente aveva prima partorito e poi dimenticato, si muovono nel romanzo tra quattro città che da sole potrebbero raccontare la nascita dell’epoca moderna: Roma, Farfa, Firenze e Urbino. Le loro vite s’intrecciano con quelle di coloro che nella realtà contribuirono eminentemente al parto di questo nostro mondo: Leon Battista Alberti, Filippo Brunelleschi, Masaccio, Piero della Francesca, Donatello, Luciano Laurana.
Ma qui non interessa tanto la vicenda, anche per non sottrarre al lettore il gusto di scoprirla pagina dopo pagina. Interessa più la forma. Perché gli autori hanno saputo contaminare il linguaggio narrativo con altri linguaggi, antichi  e nuovi, come la pittura, il teatro e il cinema.
Qualche esempio.
Il romanzo parla di diversi pittori del primo Quattrocento, inizia e si conclude con uno straordinario riferimento a un capolavoro di Piero della Francesca. Ma non si limita a parlare di pittura. La prima pagina, per esempio, è strutturata proprio come un dipinto. Essa è dedicata a descriverci l’arrivo dei due protagonisti principali del romanzo nell’abbazia di Farfa. Di Nour ci descrive i capelli “nerissimi” e la tunica di lino “bianco” che indossa, del frate che li accompagna ci mostra l’abito “bianco” sotto il mantello “nero”. Il nero dei capelli di Nour, unito al bianco della sua tunica (che torneranno prepotenti nel dipinto di Piero della Francesca) si contrappongono al bianco e nero della tonaca dei domenicani, per molti versi gli antagonisti nella vicenda narrata.

Non è pittura questa?
E della pittura raccontata nel romanzo, quella che fa della prospettiva la propria forza, il romanzo offre una straordinaria rilettura in chiave narrativa. Nour ci viene descritta fin dall’inizio come una bambina che non comunica con gli altri e molto limitatamente soltanto con suo padre, un caso, insomma che oggi etichetteremmo “di autismo”. Ebbene, quando, proprio nelle prime pagine, gli autori ci descrivono la situazione, ci presentano questo limite con un vertiginoso capovolgimento prospettico: “Solo lui, Isidoro, hail privilegio di sentire la sua voce”. Il limite diventa privilegio.
All’interno del quindicesimo capitolo, invece, troviamo una “scena” (è proprio il caso di definirla così) costruita con abilità drammaturgica. Si tratta di una scena ambientata a Firenze il 28 agosto 1434. Isidoro compare dinanzi al papa Eugenio IV, quest’ultimo affiancato dal domenicano frate Teomondo. È un momento cruciale: da quel colloquio con il papa Isidoro potrà salvare se stesso e le persone che gli sono care, oppure sprofondare nel gorgo destinato a chi è considerato eretico, tesi questa che Teomondo sostiene. Ebbene, gli autori dividono la scena in due parti e la costruiscono con sapienza psicologica. Nella prima parte, un Isidoro irretito dalla paura si rivolge costantemente al papa scavalcando Teomondo che, invece, lo aggredisce verbalmente. Poi, dinanzi al culmine dell’aggressione di questi che minaccia il rogo, “Isidoro chiude gli occhi e pensa a Nour. Conta solo lei, pensa, non ha importanza quello che accadrà a me. Sente salire una calma interiore che non provava da molto tempo.” Qui ha inizio la seconda parte della
scena, in cui il dialogo diventa diretto fra Teomondo e Isidoro che non ha più paura, una disputatio che vedrà quest’ultimo vincitore. Manca la messinscena, ma è teatro. Al tempo stesso, la medesima scena presenta anche tratti ispirati al linguaggio cinematografico. Lo scontro fra Isidoro e Teomondo ha infatti come testimone silenzioso e giudice inappellabile il papa, che non parla. E allora gli autori ci rendono la sua paradossale presenza con la maestria di un direttore della fotografia: “La luce delle finestre alle spalle dell’imponente seggio papale colpisce direttamente gli occhi di Isidoro. Vede i suoi interlocutori solo in controluce”, “Il volto di papa Eugenio è avvolto nell’ombra, non fa
trasparire emozioni.” Il consiglio al lettore, dunque, è di allertare tutti i sensi perché, anche se il testo parla di matematica, filosofia e teologia, lo fa con il linguaggio dell’arte, che resta il medesimo al di là delle molteplici forme
d’arte. E quel linguaggio parla ai sensi.