Sezze/ La storia vista dal basso, per gli umili è meglio non fidarsi… mai

Sezze/ La storia vista dal basso, per gli umili è meglio non fidarsi… mai

26 Aprile 2020 0 Di Rita Berardi

In questi giorni si è scritto e discusso tanto sul 25 aprile tanto da farmi pensare di non avere nulla da scrivere su un giorno così importante non solo per l’Italia, ma per il mondo intero e allora ecco che i racconti, la storia, diciamo i ricordi di chi ha lasciato una testimonianza si dettano presentandosi prepotentemente alla memoria come volessero essere di liberarti anch’essi dall’ oblio. La lotta allora si ripresenta tra chi chiede testimonianza scritta e il mio animo, confuso e riflessivo, se sia giusto o meno scrivere qualcosa. Ecco che mi viene da scrivere quel che mi diceva mia nonna paterna Vincenza Molinari, lei che dalla prima guerra fino alla seconda e dopo ebbe una vita dura proprio a causa delle conseguenze disastrose dalle due guerre con in mezzo il fascismo. Mi parlava così: “vedi Rita importante non è il 25 aprile, ma I giorni prima e soprattutto dopo, il giorno dopo quando, chi prima stava con i perdenti passo’ con i vincitori”. Per mia nonna che la guerra l’aveva vissuta non restando a casa come tante donne, ma andando su e giù tra Sezze e Roma, tra ferrovie e campagne e centri abitati, per lavorare e anche contrabbandare, aveva visto di tutto e forse anche sopportato e subito, ma di questo lei non ne parlava come tanti di quelli che la guerra l’avevano sofferta. Nessuno di loro a noi bambini ci raccontava la guerra violenta, ma solo ricordi criptati, utili ad educarci a pensare e costruire un mondo di pace.Fu così che zio Federico Maenza non raccontò della subita prigionia in Germania se non solo della sua amicizia con un ebreo il papà di Ada di Veroli, mio nonno Enrico Berardi non ci raccontò di come in Albania i fascisti sparavano a tiro a segno ai bambini lanciati in aria e zio Silvio raccontava solo dell’aiuto dato agli americani a stanare due mitraglieri tedeschi che bloccavano l’entrata a Sezze mentre mia nonna non raccontava di quando la presero i fascisti ma diceva solo che erano: “ladri e cattivi ma piu’ ladri che cattivi”.

Mia nonna non raccontava, lei indottrinava a non fidarsi dell’uomo ed era così che quando ero con lei al Chiosco, al parco dei Cappuccini dove venivano tutti, dai fascisti a comunisti, socialisti, i ragazzi dei “Casali”, quelli di “Ferro di Cavallo” oggi scalinata fronte “Gianna” perfino quelli dell ‘Azione cattolica si fermavano a prendere il gelato quando andavano a giocare a pallacanestro al campetto dietro la Chiesa, lei che grazie alla sua diffidenza si era salvata anche dal bombardamento di Sant’ Andrea con il suo accigliare l’occhio destro e accennare un lieve sorriso mi indicava che quello che stavo ascoltando da bambina curiosa con il naso all’insù  non era che “no sfùzzácano”‘. Come dire lascialo parlare, ma non ti fidare, tanto domani avrà già cambiato camicia o come dire si presenta come amico, ma poi ti farà male.Per mia nonna il 25 aprile non era la liberazione, ma era stato una linea di demarcazione tra lei e l’essere umano anzi, l’uomo perchè l’uomo aveva portato la guerra e gli americani non poteva nemmeno sentirli nominare “a tiro dè schòppo” perche’ per lei furono gli assassini della sua amica e i suoi figlioli.

La storia andò così: “ nú abitavamo a Sant’Andrea dí fronte alla chiesa, la casa che fa angolo subito a via ‘Mberto appenua sentìi gl’aerìi arrivuá se capiscèvua che erano glià’mmèrícani che poco prima avevano bùmbárdato Terracina, allora lèsta acchiàppai figlèmi e quando staò pè core verso í Monúmento, ecco che stà’mica mea cò glì fígli n’bráccio e pè mano accómme a mí, me dice de rifuggiacce alla Chiesa. Nci’ha stato niente da fà a facce capí che quígli sfúzzacáni degli ‘mmericani sarinno bombardato la chiesa essa, pora femmena me dicevùa che gli ‘mmèricâni le chiese non le bumbardavùano ma de nfamuni ne avevo visti e ci dicíi che non me fidavuò de so patto fatto con chi? Tocca curemo agli monumento, jamo, mettemo se creature sotto agl’arberi con la trippa pèttéra, lassa perde sa Chiesa, tocca vui có nú, ‘nvece póra figlia morivúó sotto le bombe di quigli assassini che manco fronte a na croce de Cristo se fermarono“.

Questo dolore mia nonna lo portò sempre con se e lo prese come una dottrina del non fidarsi di chi parla tanto e non solo, tanto che un giorno al solito chiosco, quando venivo dall’indottrinamento dello zio Silvio comunista d.o.c che i fascisti erano assassini e avevano distrutto l’Italia, i comunisti erano i liberatori, dei socialisti meglio non fidarsi nonostante lo fosse l’ amico fraterno di mio padre che ho sempre nel cuore “Chicchino” ai posteri Francesco Di Trapano e poi i democristiani meglio tenerli alla larga, chiesi a mia nonna chi fossero quei ragazzi che avevano una fascia bianca con scritto Lotta Continua e lei con il suo solito pragmatismo e tanta esperienza nel suo goliardico e colorito modo dialettale mi rispose:“quiscí sò quígli che nce ne thè de fa un cazzo”.

E fu cosí che dopo alcuni mesi all’uccisione di Aldo Moro, altro brutto momento dei tanti di una guerra civile che dal giorno dopo della liberazione del 25 Aprile del 1945 non era ancora terminata, maturai pian piano che passare da una camicia all’altra non era cosi difficile, come il macchiarsi di efferate violenze o seguire il delirio di un esaltato per gli italiani tra le tante chiacchiere da bar e una partita a briscola, e che ogni data di ricorrenza porta con se una storia prima e dopo. Prima fatta e poi scritta quasi sempre dall’uomo, quell’uomo, maschio, di cui mia nonna accigliando e con lieve sorriso mi indicava di non fidarmi mai