Camposanto: una poesia di Franco Abbenda e un mio ricordo per spiegare quello che voi al piano non potete capire

Camposanto: una poesia di Franco Abbenda e un mio ricordo per spiegare quello che voi al piano non potete capire

18 Maggio 2021 0 Di Lidano Grassucci

La civiltà si legge dal culto dei morti, la civiltà si offende se offendi i suoi morti. Ciascuno ha le proprie radici, sono dentro di te anche se non lo vuoi, anche se, apparentemente, non ti sono accanto. Ciascuno di noi non ha gli anni dalla sua nascita, ma la somma di quelli della sua civiltà. I morti sono vivi fino a quando c’è di loro l’ultimo ricordo, l’ultimo sorriso. Mi insegnò tutto questo mio zio N’Cicco Ceccano che alla morte di mio nonno (Era la prima mancanza in una vita dove pensavo che i miei affetti fossero destinati all’immortalità) con lui disteso sul letto, come il Cristo di Mantegna, cominciò a narrare le cose di lui, tutte così vive da essere divertenti. Avevo tanto da piangere ma mi faceva ridere, e la notte inoltrava in una narrazione serrata. Dio mio quante ne aveva fatte nonno mio.

Zio N’Cicco mi stava insegnando a mantenerlo vivo, per quanto pensavo che i morti si dovessero solo piangere. Invece no, perché sono vividi, viventi. Le signore del vicinato portavano da mangiare

Anche un cuoco può essere utile in una bufera
Anche in mezzo a un naufragio si deve mangiare

Ritrovai in queste due strofe di De Gregori quella sera lontana, il suo senso di continuità. Nonno lo portarono giù dalle scale avvolto da un lenzuolo perché erano strette e la bara non ci passava. Avvolto in un lenzuolo come quel cristo di Andrea Mantegna che ho richiamato e che quando ho visto a Brera in pinacoteca mi è venuto da piangere subito e solo dopo ho capito perché.

In questo mio racconto ho voluto dare, non so se ne sono capace, uno spaccato della pietà della mia gente, di Sezze del suo amore profonda dal nascere al distacco e non è criminale amare, non è mafia rispettare. Secoli e secoli di pietà, di storia, di pianto, di gesti che non possono essere cancellati per il fast food delle fast news, noi qui mangiamo carciofi che c’era Cesare con Bruto, Papi a profusione.

La poesia che segue è di Franco Abbenda, ha lo stesso amore del mio raccontare e, parla dei nostri morti un poco allo stesso modo di me. Ho chiesto a Franco di poterla pubblicare, per estetica, lui mi ha chiesto di metterci un cappello, una cosa mia, mi è venuta lunga e mi scuso, ma l’amore non è corto e in queste fast news un poco trovo dolore di mancanza di parole in troppo dire

Scusatemi, inoltre, se vi parlo spesso di mio nonno ma come mi ha insegnato zio N’cicco lo debbo raccontare per tenerlo in vita. Ma voi di piano non lo potete capire, è amore.

 

La dì ‘gli Mórti

Lo sai che sapóro te’ Camposanto
la dì ‘gli Mórti, di domano présto?
Bisognarìa veni’ ‘na vota gl’anno
agl’alberi pizzuti degli Zoccolanti.
Quando passo sott’a quigl’Angeli
marmariti, sento ‘na scossa e muto
mi perdo tra le tombe più vecchie,
lento e ‘ncuriosito dall’atra gente.

Chi s’assùga le lacrime a nascùce,
uno ci scaggia co’ le viole fresche,
za Giggina porta lo niro da quel dì
e si piagne la figlia mammoccétta.

Da vù mi fermo, nun porto gnènte.
M’esce ‘n Eterno riposo sottovoce
mentr’arivedo squarci di vita vera:
‘nu Natalo, ‘n abbraccio, ‘nu bacio.
Accom’a ‘nu sogno troppo curto,
mi volaria raddormi’ n’atra cica
e rivedergli, pur’io Ulisse all’Ade.
Ci rincontràmo alla fine di tutto?
Dormono senza sonna’. Aspettano.
Chi credeva agli Risorto, la Luce.
E gl’atri? Mi s’aggriccia la pelle.
Pìccica, sento addóro di crippina.

 

Franco Abbenda

 

Nella foto: Cristo morto, Andrea Mantegna Pinacoteca di Brera