Schiavitù e lavoro, un legame persiste: come possiamo spezzarlo

Schiavitù e lavoro, un legame persiste: come possiamo spezzarlo

2 Luglio 2021 0 Di Fatto a Latina

Schiavitù e lavoro, un legame persiste: ecco come possiamo spezzarlo

di Serena Ciammaruconi

Il problema delle condizioni lavorative disumane

Con la “Dichiarazione Universale Dei Diritti Dell’Uomo” la schiavitù è stata definitivamente dichiarata illegale.
Guardando, però, le condizioni lavorative di alcuni Paesi si ha l’impressione che abbia semplicemente cambiato forma.
I Paesi occidentali, che difendono i propri confini nazionali dagli immigrati, sono i primi a depredare
queste zone per le materie prime e la manodopera a basso costo.
Tale fenomeno é particolarmente evidente quando ci si imbatte in multinazionali che, per massimizzare il
profitto, delocalizzano le prime fasi della produzione in nazioni in cui si trovano le seguenti condizioni:
  • grande povertà economica;
  • abbondanza di capitale umano e leggi meno restrittive.

Il costo di queste operazioni è pagato interamente dalle centinaia di adulti e bambini costretti a lavorare in condizioni disumane, per soddisfare i bisogni consumisti dei Paesi industrializzati.

Gli esempi sono molti: dalla Apple (art. 2011, Repubblica), nelle cui fabbriche dislocate in Cina sono stati
trovati nel 2010 ben 91 bambini lavoratori, alla Coca Cola che, tramite appalti con imprenditori locali,
sfruttava la manodopera africana per raccogliere le arance in Calabria (inchiesta di The Ecologist e
dell’Independent).
La questione coinvolge in primo luogo i grandi produttori e distributori della tecnologia e dell’industria
tessile: i prodotti di lusso fondano il proprio impero su giornate lavorative dalle 12 alle 16 ore per adulti e
bambini, sottopagati e costretti a dormire nelle fabbriche.
Il problema maggiore che si incontra quando si cerca di portare alla luce questo tipo di sfruttamento è
rappresentato dagli appalti (come nel caso della Coca Cola), perché spesso lo sfruttamento è legale nei Paesi in cui hanno sede le fabbriche. In Indonesia, per esempio, il lavoro minorile è legale per 4 ore al giorno, e i bambini lavoratori sono almeno 300.000, costretti a vivere lontano dalle famiglie. Per l’Asia, infatti, questo tipo di sfruttamento rappresenta un vero e proprio modello produttivo.
Quando in Cambogia la Nike chiuse le fabbriche nel paese a seguito di un’ondata di sdegno internazionale, il PIL crollò e numerose famiglie tornarono a vivere al di sotto della soglia di povertà.

Acquisti consapevoli e produzione onesta, ecco cosa possiamo fare

In risposta a questi comportamenti sono numerosi i movimenti internazionali che promuovono una maggiore attenzione, da parte dei consumatori e dei produttori, sui capi d’abbigliamento che devono
rispettare, oltre ai parametri sociali ed economici, anche quelli ambientali. Tra i più importanti c’è la Fashion
Revolution, organizzazione attiva in oltre 100 Paesi del mondo e nata in seguito al crollo di una Fabbrica in
Bangladesh, che nel 2013 provocò la morte di oltre mille operai tessili.
L‘unica soluzione per contrastare i fenomeni che abbiamo descritto è diventare consumatori consapevoli, e
sfruttare la subordinazione della domanda all’offerta per indirizzare le multinazionali verso scelte più
responsabili. Quando acquistiamo un capo il prezzo comprende il valore della vita umana dei lavoratori,
sfruttati affinché possiamo vantarci di aver acquistato l’ultimo modello di un telefonino o un capo alla moda.
Quello che per noi è un lusso quasi indispensabile, per qualcun altro è il frutto di una vita misera, al limite
dello schiavismo.