Maturità, Quintino Carissimo parte del mio ricordo

Maturità, Quintino Carissimo parte del mio ricordo

6 Giugno 2019 0 Di Fatto a Latina

E’ arrivato giugno e con lui gli ultimi giorni di scuola. Per alcuni anche la maturità. Che incubo l’esame. Ma quale maturità? C’è chi rivive quell’esame anche a distanza di anni ancora come un incubo, chi lo ha digerito in fretta e lo ricorda con piacere e chi lo ha rimosso completamente. Il mio è legato al professor Quintino Carissimo, per come ci accolse nel primo giorno del quinto più che alla prova.in sé. L’esame basta vederlo per quello che è: lo sprint finale di un percorso, un traguardo da tagliare con l’adrenalina addosso.

L’esame di maturità. Quale maturità?

Chi scrive neanche li ricorda più quei giorni davanti al foglio bianco e alla commissione. E’ rimasto altro, tanto altro che vale molto di più di un numero su un pezzo di carta che, senza capacità di intraprendenza serve a poco.

Ricordo più il primo giorno di scuola del quinto che l’esame stesso. Nessun incubo successivo.

C’era la preoccupazione per la prova finale e, al tempo stesso, la felicità legata alla conclusione del ciclo scolastico. Davanti a noi il nostro professore di matematica Quintino Carissimo, che scegliemmo poi come membro interno per accompagnarci all’esame. Quello che nel primo e secondo anno solo a vederlo sbucare dal corridoio della presidenza, dentro quel cappotto nero e la sigaretta sempre pronta per essere accesa, ci faceva tremare e non era ancora nostro insegnante.

Lui che quando entrò in classe in secondo per proporre l’indirizzo sperimentale, attivo da solo un anno, cominciò a sembrare più umano per l’entusiasmo e la passione che gli si leggevano negli occhi per quel corso a cui teneva molto.

Era un visionario, concluse così la presentazione:

“Se non avete voglia di studiare lasciate perdere perché al corso programmatori si studia e tanto. Soprattutto matematica. L’informatica sarà il futuro se ci crederete e vi darà lavoro, ma dovrete impegnarvi più degli altri.”

 Erano i primi anni novanta. Ci convinse nonostante la durezza di quelle parole. Quasi tutti sfidammo l’ignoto del corso sperimentale e della costante Quintino Carissimo come futuro professore di matematica per i tre anni successivi. Si, perché era chiaro che erano sue le tante ore di matematica dei futuri programmatori. Il corso era nato in quella scuola per la sua determinazione, ci credeva in quel futuro già scritto nella sua testa.

 

Era di poche parole, ma piene di significato. Parlava il suo sguardo.

 

Ci iniziò così alle sue lezioni:

“Se non avete studiato ditelo subito quando vi chiamo per l’interrogazione. Non  cercate di arrampicarvi sugli specchi, con la matematica non serve. Evitiamo così di perdere tempo tutti e fate più bella figura voi. Sul compito voglio vedere tutti i passaggi necessari per arrivare al risultato. Dovete dimostrarmi tutto quello che sapete se volete la sufficienza. C.v.d. lo odiavo all’università, dimostrate e basta, nessun come volevasi dimostrare.”

Diretto, determinato, concreto, pratico. Di quelli che se credono ad una idea la portano avanti fino in fondo, anche contro tutti. Ci si buttano a capofitto, con passione, fino a vederla realizzata.

Torniamo all’anno della maturità

Ci ha sempre chiamato solo per cognome. Ma l’ultimo anno no. Fece l’appello chiamandoci per nome non prima di averci guardato fisso, dritto negli occhi, uno ad uno.

Il suo sguardo era diverso, vicino. Alla fine dell’appello ci disse:

“Quest’anno datemi del tu.”

Ci lasciò basiti, senza parole. Era d’improvviso uno di noi, in fondo lo era sempre stato ma teneva al fatto che i ruoli venissero rispettati. Non più insegnante e alunni ma tutti dalla stessa parte quell’ultimo anno, quando non si parlava di matematica. In molti abbiamo continuato comunque a tener conto dei ruoli.

Quell’anno fu diverso, allentò la tensione, lui che prima ci teneva sempre sulla corda con le sue domande, con i suoi sguardi. Non godeva proprio della simpatia di tutti. Lo scegliemmo però con una maggioranza schiacciante per accompagnarci all’esame. Era uno tosto. Tutti erano consapevoli che non avrebbe mollato la presa fino a che non sarebbe riuscito nel suo intento con la commissione, se fosse servito.

L’esame di maturità. Alcune domande

Come è andata? All’esame chi era già bravo si è aiutato da sé. Chi è riuscito a copiare pure. A chi aveva un destino segnato lui è riuscito, facendo l’impossibile a cambiarglielo per quanto ha potuto, non da insegnante ma da padre di famiglia. Non proprio tutti felici e contenti davanti ai quadri, ma è passata.

Ma in fondo, cos’è la maturità? E’ una prova sintetizzata in un numero sterile, che non dice nulla.

Sono gli anni che la precedono, le lezioni di vita che restano, quelle esperienze che ti porti dentro che valgono. Quegli insegnanti che hanno dato con passione, a loro modo, secondo la loro coscienza tutto quello che potevano, che hanno incoraggiato, stimolato a fare di più e hanno lasciato il segno.

Quegli occhi li portiamo ancora tutti nel cuore.

Il resto?

Solo chiacchere che porterà via il vento. Gli esami nella vita non finiscono mai, quello della maturità è solo il primo. Lo abbiamo capito tutti dopo.

Serve il diploma?

Affrontai una persona a vent’anni nel suo ufficio istituzionale, mettendogli sotto il naso la prova tangibile di un abuso d’ufficio per una domanda su quel diploma che avevamo in pochi. Rimase senza parole. La sua risposta dopo qualche minuto fu:

“Si tratta che questo è un paese di m…., io cosa ti faccio. Ormai c’è un’altra persona al tuo posto, tanto tra un po’ la mandiamo a casa perché il progetto finisce.”

Non è stato così. Quella persona, mi dicono, continua da allora a lavorare per quell’ente.

Imboscarono il mio diploma, la mia domanda protocollata e la graduatoria per fare i loro interessi.

Quello che mi hanno dato i miei insegnanti no:

“saper leggere con occhi critici tra le righe del mondo.”

La maturità è un punto. Il diploma è un foglio.

Andate a capo con la lettera grande, o girate pagina e andate avanti per la vostra strada.