L’infante del vescovo Crociata e la laica perdita dell’infanzia

L’infante del vescovo Crociata e la laica perdita dell’infanzia

20 Dicembre 2019 0 Di Lidano Grassucci

Dice che i preti stanno avanti, se si ritrovano a fare i preti a guardare dentro le persone non a insegnargli il fuori quando stanno insieme.

Il Vescovo di Latina, Terracina, Sezze e Priverno,  Mariano Crociata, ha scritto di Gesù infante alla sua gente (ai cattolici), spiegando che l’infante è il bimbo che ancora non parla, senza parole, ma parlerà. E nel caso di Gesù parlerà e come visto che da 2020 anni gli uomini ne ascoltano la “voce” da allora. Ma la voce si fa fievole nei tempi che corrono, quelli correnti, dove tutti si sentono “mai infanti”, esentati dalla fase in cui dovevano imparare a parlare passanti direttamente alla formulazione della sentenza.

Se anche Gesù ha avuto bisogno dell’infanzia, perché noi no?

Non entro in aspetti religiosi, farei ai preti quello che non voglio che i preti facciano alla società, ingerirsi, ma nella modalità di stare al mondo sì. Si urla tanto vedendo nell’altro l’ingiusto perché l’io è tutto e quello che non è me, che non sono io, non esiste.

Essere infante presuppone il bisogno di una madre, maestra d’amore, il bisogno di una maestra depositaria delle chiavi della vita civile, il bisogno di un nonno con i suoi ricordi, dei libri con le loro storie e delle mille creature non fatte a nostra somiglianza, ma a loro somiglianti per renderci uomini coscienti della diversità.

Serve ascoltare gli accenti dei dialetti nel loro amore di vicinato, la bellezza dolce del sì per uscire dalla porta della piccola patria con la poesia. Serve la lingua lontana che sta nei muri, nelle tombe per sapere che c’è stato un altro tempo. Ed il resto viene dopo.

Credo che la negazione dell’infanzia sia la presunzione di avere ragione senza aver mai provato neanche ad ascoltare il torto. Significa dire che i medici non sanno curare, i preti pregare, i filosofi pensare, i cantanti cantare. E’ cercare scorciatoie ignoranti per barare.

Mi perdonerà il Vescovo di aver messo del mio nel suo, ma viviamo nella medesima terra e i pensieri debbono mischiarsi, andare nel loro corso per fare dell’infante un uomo non perché nato ed è automatico, ma perché ascoltato  e compreso, capito.

Del resto non è facile capire quel nazareno che segna le creature perché create e non nella loro gerarchia, nella loro lingua, nella loro vana gloria. Le dice liberabili dall’infanzia della non conoscenza, della ignoranza.

Tanto ci sarà sempre, lo sapete
Un musico fallito, un pio, un teorete
Un Bertoncelli o un prete a sparare cazzate

Dura la lirica di Francesco Guccini ma contiene l’elenco, puntuale, di chi può insegnare e il prete con la sua saggezza sempre tormentata nella vita fa il suo, lascia traccia, semina nella testa dove germogliano piante con i fiori, ma anche i suoi veleni.

Sarebbe stato bello che il prete in piazza con l’infanzia di Gesù avesse discusso col farmacista nella presunzione della scienza, con l’avvocato nell’orgoglio della legge degli uomini, col fornaio che fa lievitare la grazia e con la maestra dai capelli rossi che insegna a tanti Gesù che si faranno uomini, angeli o demoni, giusti o sbagliati, sempre di medesima umanità.

Il resto? Resto del mio, non credo i sia un Dio, non credo ci sia un paradiso, ma un bimbo è nato, un poco di tempo fa, e ha raccontato storie sbalorditive appena le aveva capite e l’infante iniziò a parlare e era uomo.

 

 

IL TESTO INTEGRALE DEL DISCORSO DEL VESCOVO

 

Cari fratelli e sorelle,

il Natale del Signore spinge ad approfondire il senso spirituale del cammino diocesano, che quest’anno ha scelto di prendersi cura dei bambini nel loro incontro con Gesù.

La nostra attenzione si indirizza spontaneamente a Gesù bambino. La tradizione non manca di offrire toccanti testimonianze della devozione suscitata dall’amore per l’infanzia di Gesù. Senza dimenticare quella tradizione, c’è un pensiero che emerge per noi sopra gli altri, e precisamente il pensiero che Gesù è stato bambino, un bambino normale, di cui Maria si è preso cura come ogni mamma fa con il proprio piccolo. Ci piacerebbe squarciare il velo di silenzio e di mistero che circonda i primi mesi e i primi anni di Gesù, ma essi rimangono storicamente irraggiungibili. Vorremmo capire come la cura materna e premurosa di Maria abbia trasmesso a Gesù quella straordinaria sensibilità finemente religiosa che ha alimentato da subito la sua coscienza di un rapporto speciale con Dio, nella quale è cresciuto vivendolo come il proprio padre personale. Ciò di cui possiamo essere certi è che lo Spirito Santo era il protagonista delle loro persone, di Maria e di Gesù, come pure del loro rapporto, in continuità con l’azione che lo stesso Spirito aveva esercitato all’atto del concepimento: «Lo Spirito Santo scenderà su di te e la potenza dell’Altissimo ti coprirà con la sua ombra» (Lc 1,35).

Lo Spirito agiva in tutto l’essere del bambino Gesù, rendendolo aperto senza riserve a Dio e disponibile a quanto Maria – anche lei piena di Spirito Santo – gli trasmetteva insieme al latte, alle cure e alle premure, alle tenerezze e all’affetto che gli donava e di cui lo circondava con infinita dedizione. Ciò che possiamo fondatamente ritenere è che in questo dialogo ineffabile da madre a figlio si trasmetteva l’amore reciproco e indivisibilmente l’amore di Dio, l’amore del Padre nella persona divina dello Spirito.

Non sappiamo dire a quale età Gesù abbia cominciato a balbettare e poi a pronunciare le prime parole, ma dobbiamo pensare che lo abbia fatto, come tutti i bambini, a poco a poco, arrivando a parlare speditamente gradualmente e dopo qualche anno. Come ogni bambino, per qualche tempo egli è stato letteralmente infante, cioè – secondo il significato letterale della parola – un bambino che ancora non parla, che sta imparando a poco a poco a parlare. Questo pensiero sfida la nostra riflessione, di noi che professiamo che in Gesù si è incarnato il Figlio eterno di Dio, secondo quanto dice letteralmente il vangelo di Luca: «colui che nascerà sarà santo e sarà chiamato Figlio di Dio» (Lc 1,35), e in modo più diretto l’evangelista Giovanni, quando dice: «E il Verbo si fece carne» (Gv 1,14). La tradizione cristiana, pertanto, ha imparato a professare la fede in Gesù come Verbo fatto carne, cioè Parola eterna e personale di Dio diventata uomo.

Dà da pensare l’accostamento tra la persona della Parola potente di Dio che crea tutte le cose e la condizione di un infante in cui egli si cala diventando con essa una cosa sola. Il Verbo diventa infante, si rende presente personalmente nella forma di un bambino che non sa ancora parlare. La nostra contemplazione si perde dentro una profondità inesauribile. Possiamo però tentare di dirne qualcosa. E cioè, innanzitutto, che Dio ha voluto assumere la nostra condizione, con una inspiegabile condiscendenza, che lo porta a mettersi nelle condizioni limitate della più piccola delle sue creature; colui che è sapienza infinita si è fatto bambino e ha dovuto imparare a parlare come fa ogni bimbo. In secondo luogo, il Verbo incarnato nella condizione infantile ci chiede di amarlo con la delicatezza, la premura e la dedizione che chiede un piccolo, che non si sa spiegare né sa farsi capire, e perciò ha bisogno di tutto per essere compreso nelle sue mute, e il più delle volte semplicemente strillate, richieste. Nello stesso tempo egli ci chiede di diventare bambini come lui, aperti incondizionatamente all’amore del Padre e ad esso affidati con un abbandono illimitato. In terzo luogo, Gesù bambino ci dice che egli è capace di parlare anche senza servirsi di parole e che le parole non sono il solo modo di comunicare, di stare in relazione e di amare. Anche da infante egli parla a noi con il suo essere fragile e indifeso, perché non cessa di toccarci il cuore e di convertirlo dalla durezza a cui spesso lo abbiamo ridotto, affinché impariamo a credere e ad amare senza trincerarci dietro parole inutili.

Il suo essere un piccolo che ancora non parla ci rende più attenti alla sua parola, anzi alla sua persona di bambino che sta imparando a parlare. Non vediamo l’ora che cresca perché possa dirci parole divine; noi siamo disposti ad aspettare che sia pronto per dircele, anzi vediamo crescere in noi il desiderio di ascoltarlo. L’infanzia di Gesù ci chiede di crescere nel desiderio della sua parola. A misura che cresce il desiderio, faremo l’esperienza di sentirlo comunicare anche senza parole e impareremo perfino – dopo aver ascoltato qualcuno dei suoi discorsi nei quali vorremmo sostare più a lungo, perché sentiamo che avrebbero bisogno di essere accolti e meditati – a tornare al silenzio dell’infanzia, della sua e della nostra infanzia, per assaporare un senso delle parole e del suo parlare, che non ci sono espressioni adeguate per dire ciò che esso va producendo in noi, nel nostro spirito e nella nostra vita. In questo modo l’infanzia di Gesù diventa per noi non soltanto una fase iniziale della sua vita, che ci chiede di aspettarlo e di prepararci, ma una condizione permanente alla quale tornare per riassaporare il senso profondo, ineffabile, del suo essere in mezzo a noi e del nostro bisogno di lui.

La celebrazione del Natale ci fa crescere nella comprensione, nell’esperienza e nella cura dell’infanzia. La comprensione cresce nella contemplazione del mistero dell’infanzia di Gesù; l’esperienza tocca la nostra condizione spirituale di fiducia incondizionata in Dio, che desideriamo e non finiamo mai di imparare; la cura si dirige ai nostri bambini, ai quali torniamo con una consapevolezza nuova, forti dell’incontro con Gesù e della nostra ricerca di una infanzia spirituale fatta di fiducia e amore per lui. Pensiamo, a questo proposito, al compito educativo dei genitori, al dialogo dell’affetto tra madre e figlio che nutre con e più di tutte le parole, perché trasmette ciò che la madre porta nel cuore e alimenta ciò che cresce nel cuore del figlio.

Infine, come comunità ecclesiale, abbiamo bisogno di imparare ciò che insegna l’infanzia di Gesù, in particolare l’ascolto attraverso la parola e attraverso la totalità della sua persona. Il concilio Vaticano secondo ha qualcosa di importante da dirci in proposito: «Perciò egli, vedendo il quale si vede anche il Padre, con la sua stessa presenza e con la manifestazione completa di sé, con le parole e con le opere, con i segni e con i miracoli, e specialmente con la sua morte e gloriosa risurrezione dai morti, e infine con l’invio dello Spirito di verità, porta a perfetto compimento la rivelazione e la conferma con la testimonianza divina» (Dei Verbum, n. 4). L’infanzia di Gesù ci fa entrare più profondamente nel mistero del Verbo incarnato, del suo essere parola personale di Dio che si esprime nella totalità dell’esistenza e della condizione di una creatura umana.

Disponiamo ora di una occasione singolarmente propizia per imparare l’ascolto indivisibilmente della parola e della persona di Cristo Gesù, con la istituzione della Domenica della Parola di Dio (Motu proprio di papa Francesco Aperuit illis, del 30 settembre 2019), che l’anno prossimo sarà celebrata il 26 gennaio. Essa ci permetterà di riscoprire il valore permanente dell’ascolto della Parola di Dio, al quale abbiamo dedicato in particolare i primi anni del nostro cammino comune. Valorizzare ancora di più e meglio i gruppi di ascolto e di discernimento sarà il nostro impegno costante, arricchito dalla profondità che dà ad esso l’incontro con l’infanzia di Gesù.

Nell’imminente Natale preghiamo il bambino Gesù di darci il gusto della parola, della sua e della nostra; ma anche il gusto del silenzio, nel quale l’ascolto si prepara e si prolunga, facendo crescere il desiderio della fede e dell’amore, nel quale culmina l’incontro personale con lui, Parola eterna del Padre.