Perchè non possono dirsi riformisti: l’opinione di Davide Facilepenna

Perchè non possono dirsi riformisti: l’opinione di Davide Facilepenna

25 Agosto 2020 0 Di Fatto a Latina
Avvertenza iniziale : questo scritto è un po’ lungo e forse noioso. Richiede, per la lettura, oltre che propensione all’ironia un minimo di conoscenze storico-politiche. Potrebbe essere inadatto a chi predilige la comunicazione politica coi parametri di twitter e basata sulla forza dell’immagine o delle frasi ad effetto.
Nell’editoriale del 18 Agosto il Direttore di questa testata. Lidano Grassucci, ha citato come categoria politica il termine “riformismo”. Non fosse stato lui, con la sua storia (che lo legittima pienamente a parlarne) avrei imbracciato (metaforicamente) il fucile (che non ho) ed avrei fatto giustizia sommaria dello scrivente. Non mi sarei potuto esimere dall’atto di violenza (sempre metaforica) perché se c’è una parola che, nel dibattito politico e culturale degli ultimi venti o anche trent’anni, è stata più abusata, storpiata e stravolta, quella è “riformismo”. Penso che se Ridley Scott girasse oggi il suo capolavoro cinematografico Blade Runner, il replicante Roy Betty (Rutger Hauer) nel celebre monologo sotto la pioggia prima di morire, direbbe a Rick Deckard (Harrison Ford) : “Io ne ho viste cose che voi umani non potreste immaginarvi, navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione e i raggi B balenare nel buio vicino alle porte di Tannhäuser ed ho visto liberali, democristiani, ex-comunisti definirsi riformisti” Effettivamente la parola “riformista”, che è stata per anni impronunciabile, dopo la caduta del Muro di Berlino è divenuta il leitmotiv sulle labbra di chiunque, politico o giornalista, volesse sentirsi dalla parte giusta e buona della storia, senza passare “da destra”. Ho ascoltato democristiani dichiararsi riformisti, così come liberali (o sedicenti tali) appellarsi alla necessità del riformismo, quando la parola libertà ha smesso di andare di moda a fine anni ottanta. Ho visto capi e sottocapi della “fronte moderato” (prima della svolta sovranista) presentarsi come paladini delle “riforme necessarie”. Ho visto persino giornali chiamarsi “Il Riformista”. Ho visto partiti del Nord, dopo aver abbandonato le velleità secessioniste, invocare “riforme federaliste”. Ho visto inutili Commissioni Parlamentari istituite per la fare le riforme, che hanno concluso il loro mandato senza portarne a termine nemmeno una. Ho visto un giovane senatore toscano nei trecento suoi travestimenti (ognuno dei quali smentito regolarmente da quello successivo) ergersi ad erede unico di tutti i riformisti d’Italia. Ma soprattutto ho i visto i post o ex-comunisti dichiararsi più di tutti “riformisti”. Proprio loro, quelli che i veri riformisti li hanno combattuti con ferocia, arrivando a definirli social-fascisti o social-traditori. Ora, fermo restando che sono io per primo un sostenitore delle contaminazioni intellettuali in politica e che ritengo doveroso, oltre che conoscere, anche fare proprie opere ed azioni di autori ed esponenti politici diversi dal mondo cui si appartiene, ritengo però che le parole e le definizioni in politica siano troppo importanti perché possano essere intercambiabili. Facciamo un po’ di chiarezza, allora, su cosa è ed è stato il “riformismo”. Il “riformismo” è stato una corrente del socialismo italiano, anche se ha visto come “fruitori” delle sue tesi, a fasi alterne, anche alcuni leader di partiti socialisti di altri paesi europei (Germania, Francia, i paesi Scandinavi). Gli esponenti storici della corrente socialista riformista fino all’avvento del fascismo sono stati Filippo Turati, Claudio Treves, Giacomo Matteotti, Gaetano Salvemini e Carlo Rosselli. Nell’immediato dopoguerra uno di loro, Giuseppe Saragat (che sarebbe diventato Presidente della Repubblica nel 1964), fondando a Palazzo Barberini il PSLI, arrivò a scindere il PSI per non finire nelle braccia del sovietico Togliatti (aveva ragione il futuro capo dello Stato in quel momento e non Pietro Nenni e Sandro Pertini). I riformisti, pur annoverando tra le loro fila alcuni tra i più lungimiranti e carismatici tra i socialisti italiani, sono stati sempre una minoranza nel modo socialista; osteggiati tra i compagni ed odiati dai comunisti (da loro le accuse di “social-tradimento” e “social-fascismo”). I comunisti italici erano tipi svegli e sapevano che un partito socialista a trazione riformista poteva causargli la marginalizzazione politica; i socialisti andavano bene per i comunisti, ma solo come portatori di voti ed in posizione di sudditanza. Qualcuno annovera pure la corrente dei miglioristi (Amendola, Napolitano) del PCI tra i riformisti, ma a me a pare una boiata pazzesca ( non mi sembra molto in linea col riformismo non aver condannato la repressione sovietica a Budapest nel 1956).
Una sola volta i riformisti riuscirono a diventare maggioranza nel PSI, un po’ per caso e grazie all’ultimo leader politico di rilievo di quell’area ovvero Bettino Craxi (vedi un po’, il più odiato dei socialisti a Botteghe Oscure). Probabilmente nell’abuso del termine “riformismo” oltre che un po’ di “paraculismo tricolore” si palesa un fraintendimento ideologico-linguistico tra riformismo e moderatismo, quasi che fossero due facce della stessa medaglia. Il riformista non è certo un rivoluzionario perché non crede nell’opzione del cambio violento di sistema (che prelude non a cambio di sistema ma solo di egemonia e potere) ma nemmeno un moderato. Anzi il riformista è il principe degli immoderati perché crede che, modificando parti e strutture del sistema col consenso popolare, sia possibile trasformare radicalmente i rapporti di forza tra classi sociali; il riformista non è un liberista camuffato. Il riformista crede nelle riforme del diritto del lavoro perché è convinto che adeguando ai cambiamenti economici e produttivi la legislazione, si possa rendere i lavoratori più indipendenti e forti. Lo Statuto dei Lavoratori del 1970 che cosa era e da che parte veniva? (infatti i comunisti non lo votarono). I riformisti pensano che le riforme istituzionali (Craxi ci provò col Presidenzialismo) possano essere funzionali al loro progetto ma solo se accompagnate alle riforme che potremmo definire sociali (welfare, sanità, modifica dei rapporti di lavoro). Non sono certo rifomisti quelli che pensano che per opporsi ai vituperati sovranisti ci si debba rivolgere al verbo progressista-globalista. L’ottica del bel mondo globale in cui tutti viaggiano, si muovono e le imprese possono spostarsi da paese in paese (sfuggendo all’imposizione fiscale) non era il futuro desiderato da Turati per gli operai o Matteotti per i contadini del Polesine, perché è un mondo in cui molti diventano più poveri (infelici e soli davanti ai loro I-Phone) a fronte di pochi che ci guadagnano davvero (prendendo per i fondelli gli ultimi veri con un paio di foto in ginocchio su Instagram o una bandiera arcobaleno sul profilo social dell’azienda). Mi dispiace ma, oltre a tutti quelli citati nell’ipotetica nuova versione del monologo di Rutger Hauer, anche Elon Musk, Jeff Bezos e Mark Zukemberg non possono dirsi riformisti.
Davide Facilepenna