Festa del papà (o tata?) e la cocciardaggine per dono

Festa del papà (o tata?) e la cocciardaggine per dono

19 Marzo 2021 0 Di Lidano Grassucci

Sere fredde d’inverno, sere buie. Vivevo con i nonni, duro vivere nel ‘900 con gentilezze dell’800 e raccontarlo nel 2000. Tre secoli in una vita sola, ora che ci penso forse sono di una generazione fortunata. Papà passava sotto la finestra e chiamava sua papà: “Tata, Tata”. Era uomo fatto mio padre, ma sapeva che suo padre lo “custodiva”, “controllava”, “biasimava” (spesso), “condivideva” (poco), ancora e per il tempo che ci sarebbe stato. A me, nipote e figlio, toccava una partita ancora tutta da giocare. Io ero ignaro che, in questi istanti, stavano preparandomi a quella solitudine a cui siamo destinati con gli anticorpi di questa educazione.

Nonno si affacciava, si guardavano padre e figlio, si “annusavano”, si “valutavano”, poi senza gesti, senza voce si “riconoscevano”. Nonno voleva sapere se era in grado di lavorare domani, papà lo rassicurava che domani avrebbe lavorato. Nonno non chiedeva nulla, solo di “alzarsi alle 5 e andare a guadagnarsi il pane”, per lui equivaleva a non dipendere da alcuno, ad essere liberi.

Chiudeva la finestra, si assicurava, senza darlo a vedere, che io avessi visto. Mi chiamavo, e mi chiamo, come lui e doveva lasciarmi i gesti, i valori, la sua ragione di vita in eredità. Non ho saltato mai un giorno di lavoro.

Di padre, in figlio.

Con i padri non si parla, non si parla mai, per via del pudore infinito di voler trasmettere la bellezza, il dolore mai, ma in mano resta il secondo, la prima è rara.

Mio padre andò via anni dopo, come era vissuto (erano tutti “cocciardi”, come dire qualcosa di più dell’italiano “testardi”) facendo di testa sua anche con la morte. “Mi sento na cica di freve”, aveva la febbre a 42. “Mi fa malo la spalla, mo m’addormo na cica e passa”, aveva la spalla rotta. “me ve na cica d’affoga fiato”, aveva un tumore al polmone e mancavano giorni, ore.

Gente così, faceva di testa propria, ma non voleva mai disturbare. Avevano una malattia di fondo che li ha, ci ha, ucciso “l’orgoglio”. Mai ammettere la debolezza, mai piangere. Ed è duri vivere senza saperlo fare.

Ammetto, ti senti solo. Ma così è per passaggio di testimone del tempo.

Mio padre chiamava suo padre “tata”, io “papa’”. Ora li saluto, ma sicuramente non ammetteranno che si mancano, che gli manco, come loro mancano a me. Per testardaggine, per cocciardaggine, per orgoglio che è il loro regalo fatto a me, il mio ricordo per loro.

 

Nella foto mio padre e mia madre