Storie: rose e monili

Storie: rose e monili

19 Marzo 2021 0 Di Lidano Grassucci

Un monile. Da contadino non capisco i fiori, non capisco la bellezza di quel superfluo che è negato a chi non ha pane. Ma, capisco le rose, e non so ancora perché. Dicono che le rose si ammalino prima della vite e facevano per noi sentinella del vino. Una risposta ragionevole, pratica, forse vera. Ma non dimenticherà mai le mani di mio nonno, cuoio puro, di quando prendeva in mano le rose a maggio: erano più dolci di quelle di una mamma per un bimbo, di un pianista per la musica, del sole d’aprile alle margherite. capivo da quel linguaggio della mano che quell’uomo aveva dentro la bellezza e amava fiori di cui non poteva avere il lusso della considerazione per il bisogno impellente.

Sarà per questo lessico familiare che il bello non lo comprendo, ma mi colpisce e mi tradisce. Tradisce la natura di uomini duri che si sciolgono al sole del colore. Nei film western tifavo per gli indiani, non per ideologia, ma per le squaw pelle di luna, vestite di pelle e con monili al collo che erano attrattori di luce. Cow Boy, e donne bianche no, erano impegnati troppo nella conquista per pensare ai fiori, troppo al possesso per possedere la vita in un punto luce, loro cercavano l’oro, le squaw il sole.

Da qui leggo i monili e capisco gli scambi per avere vetri colorati. I vetri colorati sono il contrario dell’oro: prendono la luce, la restituiscono, vivono alla luce di colli bellissimi di grazie e non nel buio dell’avidità dei forzieri. I monili raccontano le stesse storie delle rose, fanno gentile la vita, fanno alla bellezza quello delle rose alla vite, la profumano.

 

Nella foto squaw di Milo Manara