Il duro mestiere del giornalista di provincia

Il duro mestiere del giornalista di provincia

21 Settembre 2023 0 Di Davide FacilePenna

NOTA DI LETTURA: Odio i censori perché odio gli stupidi, amo diversità meravigliose. Sono ironico e debbo accettare l’ironia, critico e debbo accogliere le critiche. Amo così tanto la libertà che venero quella altrui. Questa è la vita e questa vita vale la pena di viverla. Sono anticlericale e prego, combatto i preti ma leggo le chiese. Perchè sono umano e rispetto l’umanità non avendo neanche di questo l’esclusiva (Lidano Grassucci)

 

 

Il Direttore del Fatto a Latina Lidano Grassucci, quando gli gira, dà spazio alle mie personali riflessioni. Non cronache da giornalista, quale non sono.
Ho grande stima per il lavoro del giornalista ed è un onore quando, qualcuno, mi associa, immeritatamente, ad un mestiere così bello. Solo che io non lo sono giornalista e mai lo sarò: “Domine, non sum dignus” come disse Montanelli a Berlusconi, quando gli proponeva di prendere un posto nella Cappella di famiglia ad Arcore.
Semplicemente, scrivo quello che penso e vedo.
Il Direttore San Lidano, del resto, non censura, a priori, nessuno che gli chieda spazio e non pretende si segua una linea editoriale. In molti casi, infatti, ho espresso pensieri diversi dai suoi, non fosse altro perché io con la sua storia politica e professionale non c’entro nulla.
Condivisibile e meno che possa essere il mio piccolo e semplice pensiero, gli altri sono liberi di accettarlo, criticarlo o non “cagarselo” proprio (io faccio così, quando ritengo banale il pensiero altrui).
Non m’offendo di eventuali critiche, anzi, quando mi confronto con i cinque o sei che leggono le mie boiate mi diverto a vedere, sociologicamente, come la lingua scritta si presti, più che la lingua parlata, ad interpretazioni totalmente distanti dalla volontà dell’autore e diverse tra lettore e lettore.
Fai un complimento e lo si prende come insulto. Scrivi ironicamente e ti prendono sul serio. Scrivi seriamente e pensano scherzi. Mi hanno spiegato che è una roba di “bias” cognitivi o, forse, sono solo io che scrivo “a capocchia di cane”.
Ma non è l’impatto (mi fa ridere pure a scriverlo) inesistente delle mie esternazioni (interesse di pochi) sui cui voglio riflettere, ma di quanto sia difficile, oggi, il lavoro del giornalista, soprattutto a livello locale. Vale per Latina, ma, credo, possa valere per qualsiasi landa d’Italia.
Devo ringraziare Grassucci che, spingendomi a seguire i suoi articoli e quelli dei suoi colleghi, mi ha dato questo punto d’osservazione, come dire, privilegiato. Allora, prima di tutto, ho capito che di danari nel giornalismo ne girano, ormai, pochi ed è complicatissimo poterci campare (peccato), per cui molti giornalisti devono associarci altri impieghi.
Secondo, al di là di quello che si pensi, è molto più probabile farti nemici che amici. Qualcuno lo gradirebbe pure (molti nemici molto onore, diceva un ex giornalista “fenomeno” tanti anni fa), ma, in genere, non è buona cosa nella vita.
Oltre a questo, però, c’è molto altro che lo rende un lavoro tostissimo, da veri duri, a livello del John Belusci dei Blues Brothers.
Se comanda il Signor Rosso (o Signora Rossa) e tu lo critichi un po’ o fai parlare il Signor Nero, per i Rossi sei un servo Nero, mentre per i Neri sei un paladino della libertà.
Se, subito dopo, arriva a comandare la Signor Nera (o Signor Nero) e tu la critichi appena appena o fai parlare il Signor Rosso, per i Neri sei un servo Rosso, mentre per i Rossi diventi un paladino della libertà. Tutto questo può avvenire nel giro di poche ore.
I tuoi detrattori più eleganti ti accuseranno di essere, addirittura, un “Pennivendolo”. L’insulto Pennivendolo (che mette in vendita la propria penna al miglior offerente) lo inventò il fascista Papini, come accusa da scagliare contro i giornalisti che la pesavano diversamente da lui. In verità, questa perla l’ha utilizzata, negli scritti giovanili, pure, il
comunista Gramsci. Era una delle “simpatiche usanze” con cui, esponenti delle ideologie estreme del tempo, dileggiavano gli avversari, per dire che erano non degni di confronto (solo io sono libero e puro perché professo la libertà mentre tu, che sei contro di me e la mia verità, sicuro sei un prezzolato dal potere).
Ovviamente, sei un pennivendolo pure se non prendi un euro da nessuno o nessuno ti regala un posto in qualche “gabinetto amministrativo”.
Non è, però, terribile questa storia del Pennivendolo, anzi fa sorridere, perché dimostra che ancora oggi, pure nelle piccolezze, sia forte l’influenza ed il retaggio di ideologie e toni del “passato”.
Potresti trovare dei detrattori più rozzi che, invece, ti daranno del “giornalaio”. Questa la trovo pessima, ovvero utilizzare un termine che identifica un nobile e bel lavoro, quello del giornalaio o edicolante, come un insulto.
Se le informazioni, nel passato, sono arrivate a tutti in questo Paese, lo dobbiamo ai quei tanti e meravigliosi giornalai italiani, che rifornivano i clienti di quotidiani con fogli giganteschi e carichi d’ungente inchiostro.
Ti senti “spiegare” il mestiere (vai a studiare!) da gente che è capace di sbagliare nove
congiuntivi su sei consecutio temporum in un solo commento su Facebook.
Ci sono quelli che lamentano il bel periodo del giornalismo andato e poi scopri che sono gli stessi che avrebbero sbattuto Biagi in Bulgaria o cacciato a pedate, come traditore, il Montanelli della Voce.
Tutti chiedono approfondimento e complessità, ma se scrivi un articolo complesso e articolato non se lo fila nessuno.
Taluni, che assurgono a temporanei e piccoli (per me degnissimi s’intende) ruoli politici locali, pensano di dover essere trattati come Roosevelt o Margaret Thatcher.
Molti, troppi, che si prendono troppo sul serio e prendono troppo sul serio quello che gli gira attorno, manco fossimo nel 1789 o nel 1948.
La cosa però che mi sorprende di più, in un’epoca comunicativamente disintermediata dai social networks e coi giornali letti da pochissimi coraggiosi, è il fatto che i politici in senso ampio (amministratori pubblici, segretari di partito, membri di direttivi) siano, morbosamente, attenti e sensibili a quanto compaia sui vituperati “giornalacci”.
Ma se sono scritti male, se sono indegni, se non sono influenti (sicuramente lo sono meno che in passato) perché accalorarsi, leggerli, postarli, commentarli, aumentandone, tra l’altro, la visibilità?

Detto questo, Caro Direttore Grassucci mi rivolgo, infine, a lei direttamente.
Pur con tutta la stima che Le porto, se lo lasci dire in confidenza ma, spesso, i suoi articoli sono più criptici di un capitolo dell’Ulisse di Joyce e, qualche volta, lei è pure un po’ testa di c- – – o.
PS Questo articolo è ironico ed i riferimenti a fatti o persone reali sono puramente casuali, tranne le tre righe finali. L’ho scritto, solo, per vedere se, almeno questa volta, Grassucci mi censurerà e permetterà pure a me di accusarlo di essere pennivendolo di regime e giornalaio, oltre che banale e scontato e insultatore di una professione che, una volta, fu degnissima.