Elezioni: Il mio voto in un dialogo con un lapis

Elezioni: Il mio voto in un dialogo con un lapis

25 Maggio 2019 0 Di Lidano Grassucci

Mi è venuto a trovare questo articolo è del 2010, dirigevo Il Territorio, ed era una viglia elettorale. Una visita per via del fatto che in un bar ho trovato un giornale che della mia vecchia testata conservava il nome e i caratteri, e forse era un appuntamento con questo breve ricordo, il ricordo di un orfano, di un organo dell’orgoglio.

 

Entro nella cabina elettorale, è primavera. Si vota sempre di primavera, forse che è tempo nuovo quello del voto? Ci ho fatto caso solo ora che sono dentro questo posto separato dal mondo come una ritirata di campagna. Sto qui con il lapis in mano. Già il lapis è come quello che avevo alla scuola elementare, nel tempo in cui la mia gente usciva dalla fame e di quella fame rimaneva la “semplicità del lapis”. Apro il foglio che mi hanno dato ci sono simboli colorati che non mi dicono, che non dicono, niente. Partiti di cui non conosco passato, non percepisco presente e, credo, non ritroverò sulla scheda la prossima volta. E pensare che ho iniziato a 18 anni nel ’79 o ’80, non ricordo bene, con tanto orgoglio. Entrai allora nella cabina tronfio, passando tra una selva di rappresentanti di partito che mi guardavano, andavo a votare il mio partito. Una cosa seria, tanto seria che papà, vecchio comunista come nonno, mi aveva tolto il saluto perché io votavo socialista. Non mi parlava per giorni prima e dopo: “Te so mannato puro alla scola, ma addo’ le tenete le ceruella?”.

Era un tormento, io niente: votavo socialista. E ogni volta questa storia. Se non lo avessi fatto mi sarebbe venuto mal di pancia, come se avessi mortificato me stesso. Ed è andato avanti tanto, mai dubbi.

I candidati erano per me miti, quando parlava Riccardo Lombardi restavo estasiato, come se parlasse la storia della gente ultima di cui mi ero fatto parte, di cui ero parte. Papà era di quelli che “i forchettoni” (i democristiani) mai, di quelli che pensavano che “se non sarà quest’anno, sarà il prossimo anno anche i preti lavoreranno”. Me la sono ritrovata nella canzone di Lucio Dalla sul futuro: “anche i preti potranno sposarsi, ma soltanto a una certa età”.

Pensavo di cambiare il mondo con il mio voto, di avere, pensavo, un domani meglio del presente. In camera mia c’era il poster con la faccia di Lombardi, c’era scritto: “E’ socialista quella società che dà a tutti le medesime opportunità”. Non diceva che saremo diventati tutti identici, ma che tutti potevamo avere le stesse carte da giocare per vivere. Quante cose mi ricorda ‘sto lapis e questa cabina, la luce mi va sul foglio c’è una riga vuota dove mettere il nome. Cosa ci scrivo? Sto qui e vedo mio padre che con la Millecento color carta da zucchero, “una signora macchina” diceva lui, andava a votare, di ora buona. Quando siamo venuti a vivere Latina per lui quel votare era una testimonianza di diversità: andava al seggio di Santa Fecitola, i cispadani erano quasi tutti democristiani, i parenti di mamma (cispadani pure loro) erano pure un po’ fascisti per via che dalle nostre parti veniva, stava in un podere dell’università agraria di Sermoneta, Vincenzo Zaccheo.

Papà entrava nel seggio con un orgoglio che manco i generali sovietici manifestavano alla parata del primo maggio per votare comunista. Poi allo spoglio i voti comunisti erano pochi, quelli democristiani sempre troppi, e qualche voto fascista lo feriva ancora di più.  Risultava dallo spoglio che neanche mamma lo aveva seguito, lei votava Dc, anche per dispetto.  Una storia, manco originale nelle mia famiglia: perché mentre nonno Lillo non aveva dubbi e segnava “i suricchio”, nonna Pippa aveva studiato dalle suore e votava “la croce”, santa e benedetta, segnandosi la fronte.

Mo? Che voto? Le stelle e solo 5 ? Perché c’è un cielo che esclude le altre stelle? Lega? Ma nessuno dovrebbe farsi legare, ma un tempo il legarsi era fare muro all’ingiustizia, oggi sentire un capo che, come diceva mio nonno “Schitto iasino te i padrono”,  noi siamo cristiani. Partito democratico? Che significa che gli altri non lo sono? Fratelli d’Italia come se ci non votasse loro non sta nei versi di quel ragazzo di Genova che a 22 anni è morto per la Repubblica romana.

Il lapis è l’unica cosa rimasta della mia prima volta, io votavo come Claudio Treves, come  Filippo Turati, come Andrea Costa. Ora? Come chi ed ho davanti un album di capi) così cretini.  Mi sento triste e non so perché. Il lapis mi è compagno, ora barro. Ma dove. Quando finivo di votare andavo al bar con gli amici e la voce cresceva, ci si infiammava. Ora di che mi infiammo delle escort, dei trans, dei cappotti di cammello.

Sento in testa la voce di papà: “Te so mannato alla scola e non te su ‘mparato niente, non tenete le ceruella. Per vota’ci vo testa e testone”. Già, ma chi voto?

Mi ricordo di un mio amico che si candida, scrivo il nome, segno il partito suo e vado via, voglio andar via. Mi sento solo, solo quanto mi sentivo tanto insieme agli altri prima. Solo quanto mi sentivo figlio di una storia prima. Consegno la scheda, fuori uno mi chiede ridendo: “allora hai fatto il tuo dovere?”

Lo guardo e gli dico con rabbia che non merita: “no, mi vergogno un po’”. E non avrei coraggio di guardare negli occhi papà Antonio, nonno Lillo perché non sono un uomo, un uomo ha una idea: come recitava Cesare Chiominto “pe lo giusto se faceva accide”. Mi sono venduto la libertà, uomo misero sono.

Poi, non si vede ma piango, vorrei votare un avvenire con il sole, non un presente con le nuvole. Mediocrità dei tempi. Misero sono, misero me.