A via Aspromonte la libertà del teatro nella chiusura del carcere: senza porte
1 Giugno 2019Teatro in carcere: parliamone. Un conto è guardare uno spettacolo, o assistere a un concerto. Ti siedi e passi qualche ora diversa dalla tivvù.
Altro è fare teatro, imparare le tecniche e la disciplina, fronteggiare l’imprevisto, ripetere e ripetere ancora.
E poi presentare il lavoro di fronte ai compagni di ogni giorno, che ti prendono in giro mentre reciti ma si alzano in piedi ad applaudire quando lo spettacolo è finito.
Come fai a coinvolgere questa gente, di nazionalità diversa e diversa di reato, che non è cosa secondaria, in attesa di giudizio o di domiciliari, come fai a dirgli di ripetere esercizi su esercizi perché alla fine da tanti esercizi uscirà un insieme? Insieme tutto da vedere perché tra le scarcerazioni e i trasferimenti tra le prove e il giorno della rappresentazione si rischia di cambiare compagnia per tre volte almeno.
Lo spettacolo in carcere lo hanno fatto, nei giorni scorsi, a fine maggio, i detenuti della Casa circondariale di Via Aspromonte a Latina, che hanno seguito il progetto Senzaporte, realizzato da King Kong Teatro con il contributo della Regione Lazio per Officine di Teatro Sociale 2018/2019.
In scena per Terramare c’erano Akim, Kalvin, Bogdan, Candido, Andrea, Valentin, Ahmed. La rappresentazione, a cura di Maria Sandrelli e Valentina Lamorgese, è stata preparata attraverso 25 incontri ai quali hanno partecipato 20 detenuti che, si legge nelle note di regia “hanno potuto sperimentare un percorso di training e pratica teatrale, il passaggio dalla pagina scritta al palcoscenico con la conseguente messa in scena di brani scelti.La performance conclusiva, ideata come quadri con testi di autori diversi da Omero a Calvino passando per Ingeborg Bachmann e Goliarda Sapienza, non vogliono farsi spettacolo in quanto esibizione, ma piuttosto condivisione di un percorso esperienziale incentrato sul concetto di autenticità e di presenza”.
Il risultato? Una bella manifattura, un copione cucito su misura, nonostante le misure cambiassero in continuazione. Con un senso di armonia e di viaggio sospeso tra la terra e il mare e una tela che tiene insieme.
Difficile spiegarlo in questo uragano di giustizialismo che devasta l’idea stessa di democrazia, ma anche di cristianesimo, e che vuole “i delinquenti a marcire in galera”, non c’è bisogno del processo tanto ci sono le prove, i filmati eccetera e gli avvocati sono immorali peggio dei loro clienti perché li difendono.
In questo sturm und drang di autogiustizia seconda solo all’automedicina, si dimentica però un angusto dettaglio: che non essendo tutte ergastolane prima o poi queste persone dovranno uscire dal carcere. E quel delinquente gettato a marcire svariate settimane, mesi o anni non subirà una metamorfosi tale da restituire alla società un individuo prontissimo a vivere una nuova vita, abbracciando tutte le opportunità che nel frattempo la società gli ha strutturato.
Però in questo residuo di democrazia, che non è un residuo, ma ce n’è ancora tanta, ma davvero e forse bisognerebbe raccontarsela un po’ di più, la pena è innanzitutto un deterrente, anche una punizione e sicuramente una rieducazione. Che non significa usare i metodi di Arancia meccanica. Piuttosto esprime la necessità di un’altra visione della vita, di cercare di raccontare una storia nuova, di far vedere cose mai viste, oppure che nel mezzo del cammin si sono perse di vista.
Basta immaginarsi chiusi notte e giorno dentro un fabbricato, perché a tutti può capitare di inciampare nella vita. E solo quel residuo di democrazia è salvezza.
Le dittature chiudono i teatri, se li tengono aperti decidono il cartellone.