Alta diagnostica al Goretti e quel merito di Alfredo Loffredo

Alta diagnostica al Goretti e quel merito di Alfredo Loffredo

20 Luglio 2019 0 Di Lidano Grassucci

Ho paura della medicina, temo la malattia e vorrei morire poco informato. Sono fatto così, sarò un vecchio fatalista contadino, uno di quelli che conosce la rassegnazione nell’inevitabile dolore. Ma ho la memoria che fa la riconoscenza, ho il ricordo che mi fa umano e non automa. Al Santa Maria Goretti, l’ospedale di Latina, hanno fatto una cerimonia, a forma di cerimonia, per le nuove macchine diagnostiche, tutti col petto gonfio e le medaglie.

Sapete che vengo da un mondo comunista (rinnegato per eresia socialista che mio padre non mi parlò per anni) e se davanti eravamo tutti orgogliosi degli eroi con le medaglie sul palco della Piazza Rossa alla sfilata del primo maggio, dietro sapevamo che erano inversamente proporzionate al numero di battaglie combattute. Perché queste macchine hanno un “babbo”, hanno un signore che seppur le sognava altrove è lui che le ha sognate, è Alfredo Loffredo l’unico borghese (sa stare a tavola, e qui è cosa rara, sa parlare e tacere, e qui è unico, sa indossare il bar, conosce la via, e sa parlare con il Papa) di questa città, l’unico che ha quello “spirito civico” che lo fa come dire, così partigiano, da essere universale. Ho lavorato con lui molti anni, e un poco me ne vanto, e conosco la differenza: gli altri si circondano di mediocrità per apparire intelligenti, lui sfida le intelligenti perché è lui e lo sa. Lui ha pensato all’alta diagnostica, lui ha pensato da una città che vicino a Roma potesse offrire servizi a Roma.

Non lo hanno citato alla parata, capita, capita spesso alle parate che il club dei portieri non segnali il talento del centrattacco, e io gli ho visto fare dei tocchi di palla unici. Questo si doveva alla storia della città, questo a memoria. Poi che ci siano macchine per la diagnostica è bene, che ci si accorga prima del dolore è ancor meglio. Io resto una memoria e la memoria segnala i torti.

Nella foto Alfredo Loffredo, grazie Giovanni Del Giaccio e Il Messaggero