La città dove gli orologi si fecero capovolti

La città dove gli orologi si fecero capovolti

1 Febbraio 2020 0 Di Lidano Grassucci

“La città non dice il suo passato, lo contiene come le linee d’una mano, scritto negli spigoli delle vie, nelle griglie delle finestre, negli scorrimano delle scale nelle antenne dei parafulmini, nelle aste delle bandiere, ogni segmento rigato a sua volta di graffi, seghettature, intagli, svirgole.”

Italo Calvino, Le città invisibili

Sono l’orologio di una Piazza in una città che chiameremo Lanina, ma non sta qui, sta almeno in Argentina. Non cercate riferimenti, ma sentite i frammenti, non parla di nessuno perché parla di ciascuno di noi, di noi di qui di questa città invisibile dove non ci neanche accorgiamo della trama che tutti viviamo, attori protagonisti della nostra commedia.

Io di mestiere segno le ore.

La mia vita, se la volete chiamare vita, ha solo tre possibilità, voi umani non potete capire le vostre, di possibilità, sono una infinità.

Posso, come faccio del resto è il mio mestiere, segnare il tempo per il suo ostinato verso di andare verso domani, essere sempre ora, e ricordare ieri.

Posso anche fermarmi, stancarmi di questo segno e allora sono rotto.

 Posso anche se, dico se, un orologiaio matto mi inverte gli ingranaggi “mangiare” il tempo che ci è stato e rincorrere il passato.

Nel primo caso me lo rischio il domani, nel secondo non servo a niente e nessuno più mi guarderà, nel terzo?

Già nel terzo…, che poi è il rischio del “tempo” presente.

Ci ho pensato, ci ho messo del mio e all’inizio mi è parso tutto figo da morire, vedevo i vecchi farsi di nuovo giovani, vedevo i ricordi trasformarsi in vero e non sentivo il dolore della nostalgia, poi credevo a tutto perché sapevo che da dove venivo, il domani di oggi, era stata tutta una burla e mi veniva anche da ridere. Vi immaginate l’amore del nonno al nipote condannato a non esserci più, non il nonno per il nipote ma il nipote per il nonno. O immaginate una amata che mentre l’ami corri a non averla neanche conosciuta, destinata al’oblio del passato tornante.

Poi? Poi, mentre pensavo a questa possibilità (la terza dico) è venuto un bambino che davanti a me si faceva ogni secondo più piccino e mi implorava, fammi crescere, non condannarmi a non nascere.

Non capivo, troppo complicato…

Venne un uomo che mi chiese se per favore potevo rimettere il sogno al suo posto perché viverlo, ogni sogno, dall’incubo che lo aveva generato sfiancava ogni possibilità.

Fu una donna a dirmelo: così, orologio mio, tu togli ogni possibilità e ci riporti alle domande che non hanno per prospettiva le risposte ma l’ignoranza di non poter scoprire mia come va a finire ma a sapere sempre come si è generato.

Venne poi un vecchio vestito con un nero pastrano e se la rideva, urlando a tutti, senza eccezione alcuna: troverete di nuovo la peste e vi segnerò tutte le carestie ma non come “possibilità” ma come certificato che è avvenuto.

E tutto andava a ritroso, anche le parole erano capovolte, e mentre tra me e me parlavo il mondo che girava capovolto su faceva con meno compagnia, scomparve l’acqua dal rubinetto, e indietro la città si fece la campagna che era e ancor prima acquitrino, mare e …  vidi passare un tirannosauro rex.

Poi ripensai al bimbo che era destinato a nascere mai, pensai a quel tempo che correndo all’indietro non  potevo osare neanche pensare, stavo condannando l’universo ad un giro che girava inverso.

Si fece sera perché non si faceva più il giorno a venire, il dopo era tramontare.

Mi sentii triste, e smisi di lavorare. Meglio un orologio rotto e fermo che un orologio sbagliato. E Lanina la città a cui davo il tempo non mi piaceva più era brutta.

Foto: orologi molli di Salvador Dalì