Corona virus, la febbre di crescenza e la cura del “tettete”

Corona virus, la febbre di crescenza e la cura del “tettete”

1 Marzo 2020 0 Di Lidano Grassucci

“Ohi cetto te la freve” “i che sarà, su mammocci è freve di crescenza”. Nonna mia, Za Pippa, e Tetta (la vicina di casa) intorno al “mio dolore”

Febbre di crescita, vi immaginate arriva nei talk show e una persona davanti a “signori incravattati” che raccontano della tempesta della morte gli dice “E’ febbre di crescenza”.

La cura? Il letto, il vino caldo, e la pazienza di starci dietro al malato. Poi quando la fase acuta si faceva più lieve “na cica di tetete” (un poco di tè) con i pavesini, o con il biscotto d’uovo. Il dottore? Si chiamava poco e solo se non si capiva. Le coperte durante la fase di “sfebbratura” si sovrapponevano, erano come gli stadi di un missile che doveva andare sulla Luna.

 

(Per i cultori del tè con gli aromi di oggi: era Tè Star prima o poi forse Tè Ati, e sapeva di te e basta)

Febbre di crescenza detta a un giornalista sacristo e saccente che parla in pizzo di cose che disconosce.

Il termometro aveva come marcatore il mercurio che se cadeva e si frantumava, andava via, come la febbre dopo un poco, ed era questa “scomparsa del mercurio” l’esperimento più scientifico che potevamo fare.

Era così rituale questa cura alla crescenza, che la prima volta che di pomeriggio a Latina a casa di una mia amica mi offrirono il te io rimasi perplesso commentando “ma non sto mica male”. Erano originari di Sezze e capirono ridendo la mia osservazione, e non vi dico la mia assurda meraviglia alla scoperta che esisteva anche il te al latte. Un altro mondo.

Finita la febbre, finiva sempre, eravamo ancora più magri (ma intanto qualche pavesino e qualche biscotto d’uovo lo avevamo conquistato) e ci misuravano. Non ci crederete ma risultavamo più alti di almeno tre centimetri, e più magri di un chilo dei pochi che già avevamo. Loro, le nonne matrone romane che sapevano del mondo cose che oggi neanche pensate siano nel mondo, erano soddisfatte: non avevano isolato il virus, ma avevano risolto con l’esperienza. Badate bene, non erano antiscientifiche, sentivano quando c’era qualcosa di diverso, conoscevano i guai perchè li avevano visti tutti e quando chiamavano il medico era cosa grave, già certificata, e guai a non fare quel che il medico diceva: lui era sapere, loro esperienza. Due mondi diversi ma rispettosissimi l’un dell’altro.

Il vino caldo e il te, e le cose tornavano a posto per proprio conto. Ma non credo fossero queste cose, ma la mano sulla fronte che misurava lo stato del male tra un intervento del mercurio e l’altro.

Noi sapevamo anche fare bene i malati, allungare di un poco la malattia significava saltare qualche giorno di scuola, e “tettete” (col limone, tanto limone che stringeva e preveniva effetti collaterali) e Pavesini a volontà.

Se stavano male i grandi? Brodo di pollo, di piccione, o di granunchi (rane)… ma è un’altra storia, e non ditela ai cinesi.