In memoria di Sabino Vona e il ritratto del Duce per tacer di Milano

In memoria di Sabino Vona e il ritratto del Duce per tacer di Milano

9 Settembre 2020 0 Di Lidano Grassucci
Sabino Vona se ne andò un 9 settembre di tanto tempo fa, ma nei ricordi gli anni non contano restano i segni delle mancanze. Era così diverso da me, rigoroso, scrupoloso, attento all’umanità. Quasi quacchero nel rigore morale. Era comunista di questi monti dalle cime apparentemente basse, denso di rigore controriformista. Qui, su questi monti, nasci gesuita e lo resti anche se comunista. Io amo Valdo, le eresie, il pensarla capovolto. Il mio è un Dio misericordioso il suo severo. Credere nella bandiera rossa non è giocare con l’arcobaleno e avere la barra diritta sul lavoro, è la fatica degli ultimi non barattabile è l’esempio per gli altri per far capire che ci sarà un paradiso.
Io avevo fretta e di quel rigore sentivo il peso, la felicità era da consumare presto. Così diversi stando dalla stessa parte.
Scopri al Vittorio Veneto, la sua scuola, un affresco con Mussolini. Gli dissi. “ittamoci la calce, na botta di bianco e ci i levamo dalle palle”. Lui no, lui era gesuita, e la storia non andava cancellata ma studiata per combatterla. Una grande lezione incomprensibile per la mia generazione del “tutto e subito”, della “risata che vi seppellirà”. Il suo rigore era morale, la nostra rivolta “indecente”. Abbiamo lavorato insieme per anni a fare libri, a fare format televisivi sulla pittura, sulla politica raccontata dentro l’antica Norba, scritta in fantastiche cronache raccontate da misteriose pantere verdi. E saettoni, basilischi, secolari, rettili fantastici, soldati sfigati di un papa che non sapeva fare il re.
Mi fece capire tanto della mia gente che si genufletteva davanti a Pietro, ma lo odiava quando si faceva re.
Conoscemmo i poeti in ottava rima, i pastori che recitavano all’impronta e umiliavano Benigni e Guccini, qunado baravano con la rima vietata in “apa” per colpa del papa.
Se ne andò un 9 di settembre, qualche giorno prima stava organizzando una mostra di quadri dentro all’ospedale: “Lì, puro agl’ispedalo ci vo la bellezza”.
Ci chiamarono a presentare i quadri in galleria a Milano, io, lui e Mauro Carturan. Mi prese il panico: Sabì, ma quisci ci capiscono nu che dicemo”. Lui non aveva mai paura: “damme retta semo i meglio”.
Il critico d’arte che ci precedeva nell’esposizione era di uno di quelli che andavano per la maggiore nei canali tv di arte. Parlava, parlava… toccò a noi e io esordii “l’arte amici miei è come il noumeno cantiano è inconoscibile ed ogni aggettivo ne uccide la comprensione, perchè siamo tutti digiuni di arte e per quelo la cerchiamo nell’unico discrimine che possiamo: ci piace o non ci piace”.
Sabino rideva: ci su ditta ca nu non capiscemo un c… ma isso manco”. Abbiamo preso l’applauso, perchè eravamo e siamo “furbi” in quel poco che sappiamo di non sapere.
Grazie Sabino, quel 9 settembre mi sono sentito un poco come i nostri soldati tanti anni prima, perduto.
IL RICORDO DI SABINO
Nel marzo del 1975 Lelio Grassucci mi convocò
nella nuova sede della Federazione, in via Isonzo.
Il segretario era impegnato in una riunione. Lo
aspettai nel suo ufficio. Appeso a una parete c’era
un dipinto di Ennio Calabria, L’uomo con la
bandiera rossa. Grassucci mi aveva chiamato per
propormi di lavorare nel partito. Io ero indeciso.
La scelta era difficile, perché la prospettiva era
quella di fare il segretario provinciale del Pci. Quel
dipinto, così affascinante e misterioso, mi inquietò.
Un uomo porta una bandiera rossa, che lo avvolge.
Curvo sotto il peso, l’uomo stringe l’asta nel suo
pugno poderoso. E’ solo. Cammina lento nel
silenzio di una pianura che immagini immensa.
Colori splendidi. Bellissime trasparenze. Eppure
L’uomo con la bandiera rossa fece aumentare i
miei dubbi. Forse per quella verità appena
accennata: nei momenti più duri sei solo, e da solo
devi portare avanti le tue battaglie. Alla fine
prevalse la passione politica. Insieme alla
condizione, accolta da Lelio, che non sarei mai
diventato funzionario di partito. Era una anomalia,
lo sapevo. Ma desideravo continuare a fare
l’insegnante. E mantenere la mia piena libertà
personale. E così accettai.
Nella foto Sabino Vona con i baffi insieme a luigi Longo, Titta Giorgi e Alessandro Di Trapano