Sezze, il paese dove non sono mai morti e vanno tutti in paradiso

Sezze, il paese dove non sono mai morti e vanno tutti in paradiso

27 Ottobre 2019 0 Di Lidano Grassucci

Era sempre vestita di nero, nero tizzone che c’era da “rispettare”. Ma chi, se son morti? “I ricordi”. Si iniziava il 24 ottobre, nove giorni di preparazione la “novena”, Si pregava per testimoniare il buono che avevano lasciato qui per chiederli di aiutarli lì. Lì dove? In paradiso. Mia nonna non derogava… “nonna ma se sono all’inferno?”. “No, no all’inferno vanno i cattivi che noi non abbiamo conosciuto”.

Come, tutti buoni? “C’è qualcuno che è caduto, ma si è rialzato grazie a Dio, grazie alla preghiera, grazie alla misericordia”.

Mantella nero, sotto braccio che non potevo uscire di controllo e diritti al cimitero. Non avevano nomi i morti ma le funzioni “mamma Nina” era la più antica, c’era una sua foto in bianco e nero tra le nuvole era come una matrona, una divinità vudù, una madre più madre delle altre. Le tombe dovevano essere in ordine, che figura ci fai se no con gli altri? E il giro era sempre lo stesso, i tempi delle soste pure uguali, e anche i racconti che andavano ribaditi perché non dimenticassi. Certo che guardavo intorno, in certi giorni caldi sentivi gli uccelli in cielo e c’erano tanti fiori. Non ho mai capito l’ordine dei quel disordine e i nomi accavallati. C’erano tante “mamme Nine” per via della fotografia uguale. Il mondo era tutto di “za”, “zu”, “compà”, “comma” e quelle importanti “ma”. Zu e Za erano nobiltà da Camera dei lord, compà, comma da Camera dei Comuni. Ma lo capii dopo quando arrivai allo studio non d’amore ma di rigore. La chiesa puzzava di incenso e le preghiere si facevano con l’oscurità che faceva sera prima per via dell’ora che cambiava, come se ci fosse una regia alla mestizia, al dolore. Le tombe erano curate, le luci perpetue, i pianti forse da teatro, ma la mestizia era vera e… la comare vicina controllava i lavori, ricambiata da Za Pippa che non era da meno, una gara a chi mostrava di dimenticare di meno.

Poi dal fratello “zu Giovanni”, e tutta una storia su quanto era stato eroe in guerra, la prima sul Piave, che c’aveva pure un figlio generale, anche lui Zu, “zu Neno”, che era meglio di papà che era troppo burlone, meglio il nipote, ma a me papà stava simpatico perché dava il gelato al mulo e lo trovavo irriverente, come quando i bambini ridono alla parola “cacca”.

In ultimo prima di portarmi via passava da nonno (nonno Lillo), lui è nei fornetti, mi ci portava, si sentiva per me, lei era di quelle in cui l’amore boh, era estasi per Dio e impossibile per gli uomini, ma sapeva, e sapeva bene che quel sangue era in me, che doveva rispettare il filo, ma cercava di farmi per se. Difficile da capire se non siete dentro questo mondo: i figli hanno educazione di madre, sangue di madre, ma quel goccio di sangue di uomo è come l’uva fragola, impesta tutto. Mi ci portava, aggiustava il vaso, due fiori. Io impietrito, si chiamava esatto esatto come me, solo che ero io morto, tal quale. Tracciava la croce su di se, e mi tirava via. Sapeva bene che lui era come Ercole, Achille, come uno dei paladini di Francia. Se ci penso ora, era così piccolo, piccolo, manco un filo di grasso, manco a inventarlo, eppure così gigante allora che Polifemo era un nano. Era gelosa mia nonna, ma che ci potevo fare non potevo non vedermi.

Adesso è passato tanto tempo, anni e anni, ma se mi guardo le mani tra i rovi, se lavoro in giardino, quelle vanno come le sue, se vedo la vanga entrare nella terra poi la mano ci va giusta e pianto un albero, come fece con l’albicocco a casa, mi ci fece mettere le mani, e me le spingeva a farmi sentire terra, terra tra le mani. Come le sue ma meno dure, ma meno dure, come traditrici di un destino alla terra.

Tutto in questo tempo che i morti tornavano vivi davvero. Vi ho fatto, infatti, ricordi di vivi e di morti, perché erano tutti contemporanei. Un mondo dove non c’era né vita, né morte, ma rispetto per ciascuno e il resto era dettaglio e tutti andavano in paradiso.