Sezze, i vento e i platani di Zamamma

Sezze, i vento e i platani di Zamamma

18 Gennaio 2020 0 Di Lidano Grassucci

Son d’accordo con voi
non esiste una terra
dove non ci son santi né eroi
e se non ci son ladri
se non c’è mai la guerra
forse è proprio l’isola
che non c’è. che non c’è (Edoardo Bennato)

 

Chiesa dopo chiesa, dopo chiesa stretta, e gradini e slarghi che sono come gli “spazi di Genova”, rubati. Chiesa attaccata alla chiesa, in mezzo umanità cristiana, cristi. Salgo verso l’Auditorium di San Michele Arcangelo a Sezze, si presenta il libro di Franco Abbenda “A raccolle i vento”. Poesie in lingua setina, in sezzese. Arrivo puntuale, ma l’evento è più puntuale di me.

Franco presenta il suo libro, le sue corte, le sue foto, le sue… Ecco il sindaco, Sergio Di Raimo, dice che il comune farà il REI (Registro eredità immateriali), ci metterà dentro Sezze, le sue cose, la sua anima.

Giancarlo Loffarelli spiegherà il rischio che, a volte, la poesia in lingua locale riempie di nostalgia di quando eravamo più giovani di adesso

E mi racconta piano, col suo tono un po’ sommesso,

Di quando lui e Bologna eran più giovani di adesso…

Ascolto attento di questo posto gli angoli, di questi volti il mondo che ti viene addosso e, intreccio, filo, facciamo tessuto nella testa. Chiara Mancini apre l’incontro su una poesia che è la “solitudine” di un eroe per così breve consumato in fretta vivere. Segue il rigore di una poesia che è politica di tempi che certo ha letto, ma che qui stiamo tra i vissuti. E’ attenta chiara, segue le sfumature struggenti del sentimento:

Ninetta mia crepare di maggio
Ci vuole tanto troppo coraggio
Ninetta bella dritto all’inferno
Avrei preferito andarci in inverno (
Fabrizio De Andrè)

Confessa che per lei, ma quel lei intende il suo tempo, la sua classe si sarebbe detto un tempo, parla poco il dialetto ha difficoltà a capirlo. Già è difficile, Giancarlo Loffarelli riprende quel filo: vedete ormai siamo… qui ci sono pochi giovani.

Siamo vecchi e gli occhi forti di Chiara sono occhi puntati su noi, su questa memoria che rischia di farci nostalgici, quando noi vorremmo essere “contemporanei”, vorremmo essere noi, tra altri noi in un arcobaleno italiano e non in un film in bianco e nero senza manco i grigi in attesta di colori inglesi. Di “non capisco i miei colleghi a scuola quando tra noi, e siamo tutto italiani, dicono che procederemo step to step, quando basterebbe dire passo dopo passo”.

Passo dopo passo, è il passo delle “fotopoesie” di Franco Abbenda che diventa Zamamma che diventa un bimbo che si trova sulle spalle i “moschitti” “dono” di “platani” messi a guardia di una fontana fatta da un Papa in una piazza dedicata ad un altro papa (san Pietro e Pio IX), dio che affollamento di chiese e preti.

Ma lì il dono era l’acqua da “tolle co gli concono e fa be chi teneva be, e lavà chi se teneva allavà”. E i platani diventano quel potere che tutto cambia intorno e loro restano con la volontà “di vedemo che se po fa”. 

Zamamma che corre piccolo qui, diventa l’uomo che irride il potere immarcescibile: stanno in faccia al comune, ma cercano anche di superare la chiesa dei gesuiti (che sta più in alto della “civica” ambizione)

M’aricordo da mammoccio

nun s’ovo mai mosci

piazzati agli solo beglio

….

ma n’si sarao straccati

de sta agli meglio posto,

d’esse salutati e riveriti

alla ritta e alla roversa

e di campà senza sudà

C’è Pasquino, c’è Trilussa, ma anche Dante e l’idea di mettere al posto giusto simpatici e antipatici di una Firenze che pensava alle sue mura, alle sue banche, ma stava facendo (in dialetto) la nazione italiana

L’auditorium è il luogo della “dottrina” di Zamamma, del prete che proietta immagini sacre e chiede a bambini impaziente manicheo giudizio sul bene e sul male.

Debbo dire io, ma che dico? Dico che ho letto le poesie a chi non sapeva questa lingua, ma in realtà sto provando a leggere nell’italiano che leggo per il setino che debbo dire. Come se un uomo fosse due cose diverse per farsi capire

tra mi e mi, da sulo

mica parlo italiano

allora provo a scrive 

e lo faccio ‘n sezzese 

Mi ascoltano, mi guardano strano, poi si perdono nel suono e capiscono il senso di questa necessità di riunire l’anima alla ragione, la filosofia alla meccanica, i ricordi al presente. Chi mi sente ora sente che è presente in rime un bisogno di non essere soli, ma con una matria

Lo dico sul serio, davanti a tutti, che quella cosa che chiede il sindaco “l’eredità immateriale” è questo bisogno di non essere normali, di essere unici setini. Non meglio o peggio di altri, ma unici. Di essere noi,

La madre setina scriverei nel Rei, i passi fatti da tutti noi Zamamma a salire e scendere le scale, ogni gradino diverso, e la corsa di chiesa in chiesa, e quel ragazzo di 21 anni ucciso da camice nere venute qui non perchè eravamo meglio o peggio, ma perchè eravamo unici, ed il prezzo è stato grande.

Nel registro? Anche l’aria, i platani, i moschitti, erbacite del monumento

Giancarlo Loffarelli dice con saggezza del rischio della marcia indietro, di perderci dietro l’odore di sughi, e rilancia in itinerari contemporanei.

Zamamma è sul palco vestito di nero, ha scritto un libro che ha anche nostalgie, ma l’ha scritto in una lingua di domani, se non sarà sul registro del sindaco ci saranno solo pagine bianche.

Esco, squilla il telefono “te stonco a aspettà a porta Pascibella”, “ma n’te so visto”, i “me so misso drete, tocca vi… ” “esso venco”.

Mi ferma un uomo fatto che mi viene incontro: “sarao 50 agni che non ci salutiamo”. E’ vero, correva in bicicletta, e ci abbracciamo.

Questo è il senso di tutto questo, essere che ci riconosciamo e non lo facciamo in italiano

Arisento spisso

(ha capitato puro e ti?)

gl’addoro vero

di nu tempo passato

le figurine appena sbollate

le liquirizie di Valeria

i libro novi di Maria Teresa

l’erbacite agli Monumento